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Animica – Appunti sul lavoro di Barbara Pigazzi

Barbara Pigazzi / 20 Maggio 2022 / News

a cura di Angela Madesani

È la nostalgia il sentimento prevalente di Animica (si tratta di una serie di immagini di Barbara Pigazzi di cui 7 sono state scelte dall’artista e da scrive per dare vita a questa cartella). Nostalgia dell’eterno, ma anche di quanto stiamo vedendo ora, che, in qualche modo, è già lontano dal nostro sguardo.
Sono immagini ambientate nella laguna veneta (in particolare il territorio di Codevigo, unico in provincia di Padova. La laguna veneta è stata inserito nel 1987 nella lista del patrimonio mondiale dell’umanità dall’UNESCO), il luogo che rappresenta l’identità dell’artista, dove si è ritrovata dopo essersi persa nel difficile momento di solitudine del 2020, 2021.

Nonostante la presenza dell’acqua, sarebbe sbagliato pensare a quelle distese sabbiose, alle barene come a un luogo di mare. Qui l’acqua è stagnante, ferma. Non vi sono movimenti fluidi, ondosi. Sono per lei i luoghi dell’attesa, nei quali si è raccolta con il sole, la pioggia, di inverno, d’estate ad aspettare l’immagine, che le è arrivata di volta in volta come un dono.

Nessuna di esse è rubata, casuale, immediata, ognuna è pensata, meditata, cercata. Frutto di sensazioni provate, da sola, nelle ore passate in laguna e quindi costruita, talvolta attraverso presenze umane, talvolta solo naturali. Nel corso degli anni l’artista ha seguito il percorso delle maree, ne ha preso coscienza e possesso con qualsiasi situazione di luce e di tempo.

Ogni immagine, scattata durante la chiusura per Covid, è frutto di una sorta di estasi visiva e non solo. Vi è una forma di fede in quanto si vede. Ogni volta con il luogo si è creato un rapporto strettissimo d’amore, ogni volta è entrata in simbiosi con la cuora, con il fango che sembra risucchiare tutto. Il suo è un consegnarsi al cosmo.
Di fronte a tutto questo si compie un’esperienza di natura catartica, purificatoria, dove la protagonista è lei stessa. Osservatrice e osservata, anche senza apparire in nessuna fotografia. Ognuna di queste immagini è un ritratto dell’anima.
In una delle fotografie una giovane donna indossa il cappotto dell’artista, in un’altra la stessa donna urla, è il dolore dell’inerme di fronte all’universo. È un grido lancinante, che possiamo solo immaginare. È il frutto di un dialogo con la modella, della quale l’artista ha ascoltato il malessere del momento.

Durante le nostre conversazioni più volte sono emersi i nomi di Monica Vitti, di Michelangelo Antonioni. Di quel cinema fatto di immagini essenziali, di silenzi profondi. A Barbara quel cinema piace, lo vive nel profondo, nei suoi bianchi e neri intensi.
Nessuna fotografia di questo ciclo di lavori ha un titolo, ma ugualmente quando l’artista parla dell’immagine con il telo buttato, leggero nel nulla, la chiama la “divina caligine”. Una sera, senza alcuna volontà fotografica, Barbara ha lanciato un telo in piscina. Un’immagine straordinaria le è apparsa, si è procurata la macchina e l’ha registrata. L’ha quindi inviata a un amico sacerdote-teologo, che le ha proposto questo riferimento, attraverso le parole dello Pseudo-Dionigi: «Dio abita nella divina caligine e in una luce inaccessibile».

Torniamo alla nostalgia della spiritualità, alla sete di conoscenza, di cui parla il regista russo Andrej Tarkovskij in Scolpire il tempo, una lettura che le appartiene, alla ricerca della verità alla quale l’uomo è condannato, senza soluzione di continuità, giorno dopo giorno.
È il suo un cammino nello spazio, inteso come luogo, ma anche in quello dell’anima.
Alcuni dei suoi personaggi chiedono aiuto, portano un carico sulle spalle.
In un tempo come il nostro, che rifiuta il dolore, la risposta è evidente. Qui di dolore ce n’è tanto, sentito, trasmesso. Ma il dolore è anche fonte di vita, momento imprescindibile e altamente formativo dell’esistenza.

Un corpo nudo è sdraiato, lo vediamo dalla parte posteriore. abbandonato anch’esso ai ritmi della natura, adagiato fra l’acqua e il legno sospeso come su una palafitta. Il corpo è inerte, nessun accenno alla sessualità, all’erotismo.

Alcune briccole, strutture nautiche, che indicano le vie d’acqua, spuntano dall’acqua in mezzo alle nebbie di Pellestrina, sono presenze misteriose, anime silenti e incombenti al tempo stesso. Una è lontana, si stacca dalle altre. L’artista si immedesima: ancora una volta un autoritratto, interpretato come un dono.
In un’altra fotografia sul molo sono dei crisantemi bianchi. In fondo è l’orizzonte. Il richiamo è alla morte, all’oltre, ma lo sguardo è di chi crede. Anche qui una briccola fa da sostegno e una scala, della quale non vediamo la fine, sembra portare all’acqua. L’immagine è buia, ma è palese che sia stata scattata in pieno giorno. I fiori sono punti di luce, una luce di verità, di conoscenza per giungere molto lontano.

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